domenica 9 dicembre 2012

Milano perché


A Milano ci sono molti degli amici che, in questi mesi complicati, hanno saputo trovare le parole e i silenzi per starci accanto e tenerci la mano. 

A Milano c'è l'Istituto nazionale tumori, dove molti lettori di questo blog sono stati o sono ospiti insieme ai loro figli, contattando un'esperienza di assistenza sanitaria pubblica straordinaria ed esemplare. 

A Milano c'è un assessore alle politiche sociali e alla cultura della salute che si chiama Pierfrancesco Majorino che sta facendo cose incredibili a tutela dei cittadini disabili e dei malati. Con uno stanziamento di oltre 43 milioni di euro per il solo 2012 destinato alle politiche di inclusione sociale di chi convive con la malattia e con la disabilità.

Sarò a Milano martedì, con la dottoressa Franca Fossati Bellani, per anni oncologa pediatra all'Istituto tumori e con Pierfrancesco Majorino, a parlare di tumori infantili e delle risposte che la medicina può dare in termini di cura e la politica può immaginare in termini di servizi alle famiglie e ai bambini-pazienti. Con noi anche Claudia De Lillo, giornalista e blogger. 

Martedì 11, alle 17, al Cam Falcone e Borsellino di Corso Garibaldi 27, angolo via Giorgio Strelher 2
Sarebbe bello, per chi è in città, vederci lì.

domenica 11 novembre 2012

Marianna e la principessa nel castello di fuoco

La storia che ho l'urgenza di raccontare stasera mi arriva in una mail, come un segreto, molti giorni fa. Molti giorni fa, però, io avevo iniziato il mio nuovo lavoro, il primo lavoro della mia seconda vita, il primo da quando siamo tornati a casa dal Regno di Op. E così è finita che quella mail, per distrazione, fretta e disavventura io non l'abbia aperta. Fino a pochi minuti fa. Poi l'ho aperta e ho letto la storia.

Non so bene di che regno sia questa storia. La ospitiamo in questo, speriamo solo per un po', perché è una storia di malattia che non ha nome e non ha casa. E' la storia di Marianna, che ha quarantacinque anni e fa la bibliotecaria in un pezzo di Puglia che si chiama Terlizzi. Più precisamente, è la storia di sua figlia, che di anni ne ha sedici. E' la storia della sua febbre, orfana di un nome e di un perché.

La figlia di Marianna aveva 13 anni e stava finendo la terza media, quando questa storia è cominciata. Febbre alta, altissima, improvvisa. Quarantuno, anche quarantadue. Pronto soccorso, medicine, flebo. Ma poi di nuovo: febbre alta, improvvisa. Febbre da impazzire.

La febbre va e viene, senza logica, senza cadenza regolare. Si alterna in modo confuso a stati di assoluta normalità. Poi, da niente, sale. Libera brividi e bollore, paura e confusione. Questo ottovolante tremendo e incomprensibile va avanti da tre anni, senza sosta, senza spiegazione e senza soluzione.

Una volta le hanno detto che forse era una violenta allergia a dei funghi presenti in casa. Allora Marianna e suo marito hanno cambiato casa. Sono andati a vivere in una villa, l'hanno ripulita da ogni possibile pericolo per la ragazza. Non è servito a niente. La febbre è tornata. Come un destino, l'ombra di qualcosa che non si riesce a capire nè vedere.

Ricoveri, esami di ogni tipo, alcuni molto costosi e non rimborsabili dalla Asl perché non si rimborsa una cosa che non ha un nome. Viaggi per l'Italia, momenti di disperazione, paura di morire. Ma anche tentativi, incredibili, radiosi di normalità. La figlia di Marianna fa il liceo classico, per dire. Frequenta le lezioni al computer, va a scuola quando può, per i compiti in classe e le interrogazioni. Sua madre è l'anima di una piccola biblioteca che, dicono, da quando c'è lei, funziona come la succursale di un qualche stato svedese. Aggrega associazioni, scuole, studenti, anziani attorno ai libri, alle pagine, ai racconti, mentre il resto del mondo perde il suo tempo davanti alla tv.

So che Marianna e sua figlia hanno letto il mio libro e passano da questo blog, qualche volta. So che ne hanno tratto un misterioso conforto e questo mi ha riempito di emozione e anche un po' di paura. Non so bene cosa posso fare per loro. Non so bene cosa dire a questa ragazza, costretta a una vita sotto sequestro di qualcosa che arriva come un inganno e le stringe la gola.

So però che questa famiglia è un esempio. Di resistenza, di amore per questo mondo, di mancata resa alla rabbia e alla rassegnazione. So che questa famiglia è una delle tante famiglie ostaggio di una malattia orfana: di diagnosi, di etichetta, di cure.

Forse qualcuno, passando da qua, ha una storia simile. Forse da qualche parte c'è qualcuno che ha attraversato un labirinto del genere e poi ha trovato una porta d'uscita e può scriverci, dire anche a noi come si fa, così noi lo raccontiamo a Marianna e a sua figlia, liberando questa principessa adolescente dal suo castello di fuoco. Sarebbe bellissimo, incredibile e insperato.

Intanto prendiamo appunti, da questa storia e da questa vita. Per stringerci a questa resistenza esemplare, trarne coraggio e forza. E per non sprecare tutta la libertà che abbiamo noi altri, con i nostri 36.5, le nostre uscite serali, la domenica al parco, le riunioni di lavoro che non finiscono mai e non ci danno nemmeno il tempo, a volte, di leggere le mail.

Ted Talk sul Regno di Op: il testo dell'intervento

Mio figlio ha 19 mesi. E ha una cicatrice sul cuore. Non è una metafora. Non è letteratura. Non è un modo ad effetto per iniziare questo discorso. Mio figlio questa cicatrice sul cuore ce l'ha davvero. È fatta da tre punti, disposti a triangolo. L'estremità superiore del triangolo è quel che resta di un piccolo foro. Invece i punti sotto sembrano delle piccole bacchette, di mezzo centimetro l'una. Parallele. 

Su quel triangolo, fino al giugno scorso, era appoggiato il suo cvc. Cvc è una parola che le madri non dovrebbero imparare mai. Io però l'ho imparata molto presto. L'ho imparata che ero madre, per la prima volta, da poche settimane. Cvc significa catetere venoso centrale. È una specie di coda di plastica azzurra, cucita sul petto dei bambini che devono fare chemioterapia. A mio figlio questa coda azzurra sul petto è spuntata che aveva compiuto due mesi da poco. 

Era successo che una mattina, come spesso facevo da quando era arrivato, l'ho portato al consultorio familiare che c'era di fronte a casa mia, nella periferia di Roma. Avevo iniziato a frequentare quel consultorio poche;settimane prima del parto. Più per la sua posizione che per altro. Attraversavo la strada e ce l'avevo di fronte. Era il posto più comodo dove fare il corso prenascita. E così ci sono andata, senza molte aspettative o pretese. Prima di allora i nostri consultori pubblici non sapevo nemmeno esattamente cosa fossero, cosa ci si facesse dentro a parte pap test o interruzioni di gravidanza. Ce li raccontiamo un po' così, i consultori. Anche a sinistra. E sbagliamo. 

In quel consultorio ho conosciuto un'ostetrica. Ha più o meno la mia età, si chiama Chiara ed è la mia ostetrica salvavita. Mi ha seguito prima del parto, con grande serenità. E quando Angelo è nato – mio figlio si chiama Angelo si sono scelti all'istante. Chiara una volta a settimana, insieme alle sue 
colleghe gestiva uno spazio in quel consultorio, dedicato alle mamme che avevano fatto il corso preparto. Si stava lì, si parlava, si imparava ad allattare al seno e ci si abituava all'idea di essere entrati in una nuova vita, fatta di pannolini, biberon, poppate, notti senza sonno. Era tutto nuovo, incredibile eppure così straordinariamente normale. E io mi sentivo più o meno così: in una vita nuova, incredibile e straordinariamente normale. 

Finché Angelo non ha iniziato a piangere un po' più spesso. Poi a vomitare più spesso. E poi a perdere peso. E una mattina Chiara mi ha preso da parte. Lei teneva il peso di Angelo su una specie di tesserina. Lì in quel consultorio pubblico di periferia -uno di quelli che nel Lazio la signora Renata Polverini voleva chiudere con i sigilli – erano moto più precisi che dal pediatra a pagamento. “Devi andare a fare un'ecografia. Forse Angelo ha una stenosi del piloro. O qualcosa alla pancia. Io farei un'ecografia”, mi ha detto. Era la fine di maggio, fuori c'era il sole, io ero una delle persone più felici della faccia della terra. Non mi mancava niente. Quell'ecografia era solo un puntino in mezzo a tutta quella felicità. 

E così andai a farla il pomeriggio stesso. Nell'intento, più che altro, di cancellare quel puntino. Ma fu lui a cancellare tutto il resto. Non era un puntino. Fu subito chiaro appena un ecografista sconosciuto con i baffi neri e folti appoggiò la sonda sulla pancia di Angelo. Poi la sollevò di botto e si mise 
le mani nei capelli. “E' una massa di otto centimetri e mezzo, dovete scappare al pronto soccorso”, disse a me e al mio compagno, Marco. E noi scappammo al Policlinico Gemelli, dove Angelo era nato poche settimane prima. 

Molte persone mi chiedono com'é stato quel momento. La sensazione fu quella di un incidente. Di uno schianto sul guardrail. Solo che non ci trovammo ribaltati sull'asfalto, ma sbattuti -senza scelta e senza preavviso in una stanza con un letto, un tavolo, un piccolo frigorifero, un bagno al decimo piano di quel Grande Ospedale. Il decimo piano. L'ultimo, il più nascosto. Quello dove nessun bambino, se ci fosse una qualche logica nelle cose, dovrebbe finire mai. Quello del reparto di oncologia pediatrica, un posto 
così impronunciabile che io ho preso a chiamare in un modo tutto mio e che ancora oggi, per me, è il regno di Op. 

E lì, nel regno di Op, tutto ha iniziato a rotolare veloce. Abbiamo preso a firmare consensi informati su qualunque cosa. Tac, risonanze, trasfusioni, biopsie. La diagnosi è arrivata molto presto. Senza sconti: fibrosarcoma addominale. Un raro tumore alla pancia, impossibile da prevedere e da spiegare. Era lì, comunque. E sembrava una condanna a morte, una sentenza senza appello. 

E allora di colpo si è spento l'interruttore sulla vita che io e il Marco avevamo costruito, immaginato e sognato negli ultimi 12 anni insieme. All'aria tutti i fogli con sopra i nostri progetti, disegnati insieme con il righello e con il compasso, come fanno in fondo tutte le coppie del mondo. L'estate al mare 
con i nonni, l'inserimento all'asilo nido, le gite al parco con i figli degli amici. Tutto finito, di colpo. E una scritta, improvvisa, a lampeggiarci davanti: nostro figlio, appena nato, poteva già morire. 

Le chemio sono iniziate quasi subito. Le infermiere entravano in stanza portando delle enormi siringhe senza ago. Siringhe giganti, di plastica, avvolte nella carta argentata, quella che si usa per coprire la lasagna in forno, la domenica. La stessa, identica carta argentata. Le agganciavano alla codina azzurra, avvitandole all'estremità del cvc, e poi spingevano piano piano il pistone. Tu pensavi solo: perché non a me, che magari posso sopportarlo? Perché a mio figlio? Proprio a mio figlio? 

Per fare tutto questo le infermiere indossavano questi guanti azzurri. I bambini del Regno di Op li adorano, i guanti azzurri delle infermiere. Li chiamano "i guanti dei Puffi", perché sono proprio di quel colore. Color puffo. Noi grandi invece invece appena vediamo i guanti azzurri ci facciamo scuri in volto, perché sappiamo che sono i guanti usati per le chemioterapie. Guanti altamente isolanti, che anche i genitori devono indossare poi, per 24-48 ore dopo le chemio dei figli, per lavarli o per cambiare il pannolino. Mi facevano paura, i guanti dei puffi, quando abitavo nel Regno di Op. Mi ricordavano che ero in un campo minato, in cui era pericoloso anche toccare le cose. In cui dovevo proteggermi anche dalla pelle di mio figlio. E questo è stato molto difficile da accettare. 

Poi ci fai pace, con le chemioterapie. La paura la perdi. Diventi bravo a chiuderla in un armadio e a buttare la chiave. Sorridi alle infermiere che entrano in stanza con in mano le siringhe giganti. Gli vuoi bene, a quelle siringhe. Con dentro i veleni salvavita che ti restituiranno tuo figlio. Fanno bene a coprirle con la carta argentata, a proteggerle, a usare i guanti dei puffi. 

Ci fai pace perché lentamente impari che un tumore di 8 centimetri si può sciogliere come ghiacchio. E che il Regno di Op non è un braccio della morte, ma un posto dove si possono guarire i bambini e dove forse con un po' di pazienza, un po' di fortuna, guarirà anche il tuo di bambino. Non tutti ce la fanno. Ci sono, a volte, delle sere in corridoio, che noi chiamiamo “le sere delle stanze chiuse”. Le infermiere passano e ti chiedono di chiudere la porta della stanza. E lì capisci che qualcuno non ce l'ha fatta. E ogni volta ti si rompe qualcosa. Però sette bambini su dieci escono da lì e campano cent'anni. Nove su dieci nei casi delle leucemie. Bisogna concentrarsi su questo. C'é una via d'uscita, proprio come dal Regno di Oz. Dopo l'uragano, in qualche modo, si può tornare a casa. 

Se ti concentri su questo, succede una cosa bellissima. Succede che la smetti di startene chiuso tutto il giorno in camera, come se fossi in prigione. Succede che prendi tuo figlio in braccio, con l'altra mano spingi il treppiedi di ferro con le ruote sotto e la flebo sopra e ti vai a fare un giro in corridoio, a conoscere le altre persone che hanno fatto il tuo stesso incidente e si sono schiantate sul tuo stesso guardrail ma che come te stanno provando a sciogliere il ghiaccio che abita nel corpo dei loro figli. 

Succede che ti metti a giocare a Monopoli in ludoteca con gli altri bambini soldato, che però a parte le teste rasate restano bambini uguali a tutti gli altri. Anche quando sono malati: restano prima di tutto bambini. E allora ti metti a cucinare i pop corn per loro con le infermiere, a guardare i cartoni, a giocare con la play station, a bere caffè con le altre famiglie con cui magari devi dividere la stanza. A parlare con i medici, senza lasciarti spaventare dal camice bianco. 

Sono incredibili, i medici del regno di Op, che scelgono ogni giorno l'inferno, cercando di spegnerne l'incendio, come fossero pompieri. Noi ci capitiamo per uno strano caso, in quel decimo piano del Grande Ospedale. Loro scelgono di stare lì, ogni giorno. E io dico sempre che dovremmo farlo un applauso ai pompieri. E dovremmo spiegarlo ai bambini chi sono questi signori che entrano in stanza ogni mattina, gli tirano su il pigiama per toccare la pancia e sentire il torace, li fissano sempre a lungo, come a cercare qualcosa. Una risposta, un segreto. E qualche volta ce la fanno, giuro. Li ho visti con i miei occhi. Ce la fanno a trovare la chiave per liberare i bambini dal regno di Op, rimandarli a casa, a scuola, al catechismo, a giocare a calcetto e al campeggio con gli scout. Dal regno di Op si esce, dicevamo, e se si esce è perché sono stati loro a inventarsi qualcosa. 

Comunque, a un certo punto, succede che nel Regno di Op va meglio. Va meglio, quando tiri su la saracinesca che avevi abbassato con tutto il resto del mondo, convinto che chiuderti nel tuo dolore potesse proteggerti.
Va meglio, soprattutto, quando smetti di vergognarti di farne parte. Di essere raro. Genitore di un bambino raro. Un aggettivo che ti perseguita dall'inizio, uno strano marchio a fuoco che impari a sopportare tuo malgrado. Perché essere rari è una bella responsabilità. Essere genitore di un bambino raro ancora di più. 

Solo che 1500 bambini rari all'anno, se li metti insieme, si sentono meno rari e meno soli. Allora ecco una cosa intelligente, utile da fare, ho pensato a un certo punto. Smettere di vergognarsi della malattia dei nostri figli. Uscire da questo strano disagio. E da questo apartheid. Fare outing. Senza esibire la malattia, ma parlandone, raccontandola e spezzando il tabù che la circonda, soprattutto quando la contamina il terreno della felicità obbligatoria dell'infanzia. L'infanzia di plastica propagandata dalle pubblicità della Chicco che però qualcuno aveva vietato ai nostri figli. 

Bisognava raccontarli, i nostri figli. Senza paura e senza fare paura. Tirarli fuori in qualche modo dalla riserva indiana di quell'ultimo piano nascosto del Grande Ospedale da cui non potevano uscire e in cui non poteva entrare nessuno senza mascherina. Quel necessario isolamento fisico non poteva, non doveva tradursi in isolamento sociale e noi genitori potevamo fare qualcosa per uscire da quella linea gialla del parcheggio invalidi dove avevano confinato noi e i nostri bambini. 

Invalidi civili minori, sono tecnicamente i bambini oncologici. Ma invalidità è una parola tremenda. Bisognava dimostrare in qualche modo che i nostri figli erano e sono validi a stare in questa società. Dentro e non ai margini. È per questo che ho aperto un blog sul Regno di Op e poi ho accettato che diventasse un libro. Un diario dei nostri mesi in trincea. Che raccontasse dei bambini e dei ragazzi che abbiamo incontrato, del lavoro incredibile dei medici, delle infermiere, delle altre famiglie... 

Perché attraverso le parole si potesse conoscere anche questa infanzia. Perché si potesse violare virtualmente l'orario delle visite. Perché si potesse parlare pubblicamente dei nostri ospedali pubblici e di quello che di incredibile accade dentro. Perché si potesse raccontare che ci sono genitori costretti a trasferirsi dal sud al nord per curare al meglio i propri figli, e non è giusto. Perché si potesse dire che per curare i propri figli alcuni genitori devono lasciare, oltre alla propria città, anche il proprio lavoro. E meritano di non restare soli. Meritano assistenza, servizi sociali pubblici e gratuiti come 
case accoglienza e assegni di sostegno. 

Perché si potesse dire che c'é un farmaco usato nella terapia di mantenimento della leucemia. Si chiama Purinethol, é un farmaco salvavita ed e' stato carente in Italia per 5 mesi, per tutta l'estate. Ora va meglio, ma per 5 mesi le famiglie non lo trovavano e per la paura di restare senza si mettevano in macchina e andavano a comprarlo in Svizzera, oltre il confine, pagando una scatoletta per tre volte il suo prezzo. E la nostra politica, il nostro ministro alla Salute non hanno saputo evitare tutto questo. L'angoscia, l'incertezza, i viaggi della speranza in nome del diritto alla cura. 

Il blog sul Regno di Op ha superato le 100 mila visite, é diventato lo spazio in cui una comunità -quella delle famiglie dei bambini oncologici -si ritrova, si tiene stretta ma soprattutto cerca il contatto con l'esterno, senza paura di toccarne la pelle e di farsi toccare. Senza guanti di plastica. Perché non esiste una separazione tra la società dei sani e quella dei malati. Cosi' come non esiste una separazione tra nord e sud, italiani e stranieri, ricchi e poveri. Siamo tutti validi a stare in questo mondo. Nessuno escluso. 

Concludo dicendovi che mio figlio ha fatto 7 cicli di chemio e ha subito un intervento che ha riaperto la sua partita con la vita. Non è guarito. Ci vorranno cinque anni per dire se davvero sta bene. Ma intanto sta bene. Ha tolto il cvc, non fa più le siringhe nella carta argentata, non vive più in un reparto di isolamento, può vedere altri bambini e presto come tutti gli altri bambini andrà all'asilo. 

Anche io e Marco stiamo abbastanza bene. Ci siamo sposati. Siamo tornati a lavorare. E ci sono dei giorni in cui riusciamo a dimenticarci di tutta questa storia e a sentirci una famiglia normale. Ma io non smetterò mai di raccontarla, la nostra trasferta nel Regno di Op. Perché ho imparato che il dolore non va mai rimosso, nè sprecato. Esiste sempre un punto di leva per ribaltarlo, il dolore, e trasformarlo in qualcos'altro. E il mio dolore è al servizio di tutte le 1500 famiglie di bambini oncologici che ogni anno, in Italia, vanno avanti a denti stretti e chiedono servizi, diritti e ascolto. 

martedì 30 ottobre 2012

Il video del mio Ted Talk

E' molto importante, per me, proteggere questo spazio. Che è uno spazio di parole che incontrano altre parole. E non di facce. Nè di immagini in movimento. Non voglio sporcare questo blog con i suoni e i rumori. Mi piacerebbe che rimanesse una stanza in cui ogni incontro sia sufficientemente intimo e protetto.

Faccio, però, un'eccezione.
E vi propongo di dare un'occhiata a un video in cui racconto la storia di questo blog.
E' il video del mio Ted Talk a Reggio Emilia.

Credo che parli di noi.
Del perché ci troviamo qui, ogni tanto.

E quindi non ho ragione di nascondervi il mio volto e la mia voce.
Non questa volta.


venerdì 19 ottobre 2012

Il regno di Op sul palco dei Ted Talk Italia

Quando ho aperto questo blog era una vita fa. Un'altra vita, che ha cambiato la mia vita. Si è presa la mia leggerezza, ma mi ha restituito una forza che non sospettavo nemmeno di avere.

Quando ho aperto questo blog era un momento in cui volevo spezzare l'isolamento in cui la malattia di mio figlio mi aveva fatto scivolare. Volevo alzare la saracinesca del mio dolore. Raccontare la mia storia, le nostre storie. Volevo mostrare a tutti la bellezza dei nostri bambini, trascinare loro, noi famiglie, le infermiere, i medici lontano dal tabù che ci voleva nascosti all'ultimo piano del Grande Ospedale perché quello che ogni giorno faceva parte della nostra vita poteva spaventare la vita degli altri. 

Quando ho aperto questo blog era un momento in cui volevo liberarmi della vergogna della malattia dei nostri figli. Volevo uscire dalla nostra riserva indiana e provare a contagiare della nostra voglia di vivere il mondo. 

Quando ho aperto questo blog pensavo, però, che fosse solo un blog. Un blocco di appunti appoggiato sul muretto del web, aperto alla lettura dei passanti della rete o della piccola comunità dei 1500 passanti all'anno che popolano i Regni di Op di tutta Italia.

Mai avrei pensato che, insieme agli amici delle edizioni la meridiana,  ne avrei fatto un libro.
Mai avrei pensato che sarei finita a parlarne nelle piazze di mezza Italia, con le associazioni, i politici, i lettori, le altre famiglie. Ma soprattutto mai e poi mai avrei pensato che sarei finita sul palco di un teatro a parlarne.

Domani succede. Alle 1430 sarò a Reggio Emilia, al Centro Internazionale Loris Malaguzzi, per la seconda edizione dei TedX Italia. Avrò 18 minuti per parlare di tutto quello che ci siamo detti qui in questi mesi interminabili e incredibili.  Per provare a mettere a disposizione il tentativo mio e della mia famiglia di resistere al dolore e tradurlo in battaglia comune e collettiva a favore di una nuova sensibilità nei confronti dei bambini affetti da tumore infantile e delle loro famiglie. 

Proverò ancora a usare le mie parole senza paura e senza fare paura a nessuno. 
Se vi va di seguire il mio Ted Talk in diretta potete farlo qui


mercoledì 15 agosto 2012

La democrazia del cocomero

Mi ricordo che Angelo non faceva nemmeno piu' terapia, perché stava così male che i medici si erano fermati. Una specie di pausa di riflessione, per provare a capire se una via d'uscita esisteva o se bisognava iniziare ad abituarsi all'idea di mollare la presa. Mi ricordo che avevo smesso di comprargli i vestiti per i mesi successivi. Anche il nostro armadio viveva come tutta la famiglia: alla giornata, seguendo gli eventi senza troppa convinzione, senza pensare alle stagioni che venivano, ai mesi che si davano il cambio sul calendario e noi che nemmeno che ce ne accorgevamo. 

Mi ricordo che, come in tutti i giorni di festa, nel Regno di Op provavano a farci dimenticare che la vita di tutti ci aveva escluso per ragioni impossibili da cogliere e per un tempo che non era dato sapere. E mi ricordo che dappertutto c'era un gran da fare. Mi ricordo che i portantini passavano per le stanze a rassicurarci sul vitto in arrivo a mezzogiorno: "Sembra che arrivino le tagliatelle al ragù, l'arrosto e le patate al forno", ripetevano a noi quattro gatti reclusi in reparto. "E pure il cocomero", aggiungevano. E non so bene perche' questo cocomero democratico che varcava i confini del Grande Ospedale e arrivava fresco e a fette anche nel nostro recinto, come in tutte le spiagge, le ville sul mare, gli alberghi e i resort dei vacanzieri d'estate, un po' di sollievo, al solo pensiero, ce lo dava davvero.

Ricordo esattamente chi erano le infermiere in turno. E chi era ricoverato e chi no. Eravamo rimasti in reparto solo i casi piu' gravi, impossibili da dimettere nemmeno per 24 ore di permesso nel cuore dell'estate. Noi appesi al nostro filo sottilissimo, Serena sulla soglia della stanza 9 a vigilare su Bernardo che iniziava a peggiorare e Michela vestita da spiaggia, appena arrivata in quel giorno infame, a esplorare la ludoteca e a contare i passi del corridoio, con la madre e i nonni con gli occhi sgomenti e un sacchetto di frutta in mano a chiedersi il perche' di quel dolore al petto, a sperare ancora di essere finiti nel posto sbagliato nel giorno piu' sbagliato di tutti.

Poi mi ricordo che successe quelle che succede sempre anche a Pasqua, Natale, Capodanno, Carnevale. Arrivarono i clown, con la chirarra sulle spalle. Arrivo' l'assistente sociale dell'associazione dei genitori a chiederci se noi genitori volevamo andare a farci un giro, perché ai bambini per un'oretta poteva pensarci lei. Arrivo' la psicologa a chiederci se volevamo fare due chiacchiere.

Poi arrivò un'esponente piuttosto nota di un sindacato nazionale. La conoscevo abbastanza bene, me la vidi entrare in stanza e saltai sulla sedia. La invitavo sempre nel salotto di una trasmissione per cui lavoravo, in Rai. E siccome non lavoravo da mesi e tutta la vita precedente mi sembrava ormai insensata e lontana quando la vidi entrare nella mia stanza, senza preavviso e senza che io capissi bene il perché della sua visita lo trovai assurdo e comico insieme. Poi un'infermiera le disse che malattia aveva Angelo, lei mi strinse la mano e mi disse che il suo sindacato era molto vicino ai malati e che ogni ferragosto portavano alcuni regali in corsia: matite, colori, macchinine e Barbie, libri da sfogliare. "Pero' signora io non pensavo proprio che un bambino così piccolo potesse stare in questo reparto, un regalo per un bambino così piccolo non ce l'abbiamo", aggiunse. E da brava persona quale è sempre stata ed è si scusò abbassando lo sguardo. "Prenderemo il libro di Tarzan, va benissimo, sta imparando a sfogliarli proprio in questi giorni", tagliò corto Marco, rassicurandola e togliendola dall'imbarazzo. E a quel punto l'infermiera che l'accompagnava ci fece l'occhiolino e la accompagno' alla porta. 

Ricordo che tutta la mia famiglia arrivo' dalla Puglia e che siccome era ferragosto li fecero entrare in stanza un'oretta prima dell'orario delle visite. Ricordo mia madre che mi porto' una teglia di pasta al forno calda e mi disse "vai a mangiarla in terrazzo, che prendi aria, al bambino ci pensiamo noi" e poi fece gli occhi lucidi e rossi e mi disse che doveva andare solo un momento in bagno. Ricordo che in via del tutto eccezionale sul terrazzo a un certo punto ci fecero venire anche Angelo, purché come i vampiri non prendesse sole per nessuna ragione al mondo, visti i farmaci che aveva in corpo. E ricordo che lo bardammo e gli infilammo in testa un enorme cappellino verde militare da Sampei e alla vista del sole, anche sotto il suo cono d'ombra, in quel minuscolo terrazzo che ci sembrava una foresta incantata, socchiudeva gli occhi e girava la testa da una parte e dell'altra come a chiedersi cosa fossero l'aria, l'ossigeno, le piante e l'orizzonte. Il suo mondo era molto più piccolo di quel terrazzo di pochi metri e quello strappo alla regola, improvvisamente, glie lo aveva fatto capire.

Ricordo che a ferragosto io e Marco decidemmo che da lì a due settimane ci saremmo sposati. La nostra famiglia andava celebrata e non bisognava consentire alla malattia di fermare i sogni, i progetti, la vita. Bisognava opporre tutta la resistenza possibile, bisognava rilanciare, bisognava provare a puntellare la nostra unione e riempirla di promesse e di rose. Forse avremmo dovuto celebrare le nozze senza Angelo, che non poteva lasciare l'ospedale di quei tempi nemmeno per cinque minuti. Ma avremmo fatto in fretta e saremmo tornati presto da lui. E così fu, due settimane dopo. E fu una cosa bella e giusta. E per ora ci ha portato fortuna.

Ricordo la fine, di quel ferragosto. Il tramonto infuocato davanti alla grande vetrata della stanza, il sollievo assoluto che anche quella festa in ospedale fosse finita. Ricordo che arrivarono le pizze e che giocammo tutto il tempo con il libro di Tarzan e che quando fu il momento di provare un po' a dormire il sonno arrivo' un istante dopo.

Quest'anno, a ferragosto, sono al mare. E qualcuno direbbe che ho da dimenticare quel ferragosto di piombo e ombra di un anno fa. Invece no.

Bisogna ricordarseli bene i bambini che oggi mangiano il cocomero in ospedale. Famiglie che portano le lasagne nel contenitore d'alluminio. Infermiere che fanno il ca ffè nella moka per tutti perché il bar chiude prima ma senza caffè come si fa. Medici che chiamano dalle ferie per sapere se i bambini stanno bene e se è tutto nella norma.

No che non è niente nella norma. Perché i bambini a ferragosto dovrebbero stare a fare i castelli di sabbia con la paletta e il rastrello. Non dovrebbero saltare nemmeno un ferragosto della loro vita. Però pazienza. Qualche volta il mondo sottosopra si riesce a mettere in piedi e, nonostante i ricordi, il dolore lo lava via il mare. Qualche altra resta al contrario. Nonostante il cocomero democratico in corsia. Nonostante i libri di Tarzan, i clown, le psicologhe, gli assistenti sociali, i pennarelli per colorare. E allora bisogna solo aspettare che ferragosto con il suo rumore di fuochi d'artificio e tormentoni d'estate passi anche stavolta. Pensare che è questione di ore e questo evidenziatore giallo fluorescente della differenza tra chi sta bene e chi sta male si sbiadirà. Si asciugherà come acqua sulla pelle. 

venerdì 22 giugno 2012

I tre moschettieri e la caramella spaziale

Manuel, Stefano e Giorgio hanno molte cose in comune. Sono nati in mesi diversi dello stesso anno, il 2009. Vanno pazzi per il Fruttolo, la Nutella, i cartoni della Casa di Topolino che danno sul satellite e le costruzioni della Playmobil. Vengono da famiglie di provincia, di quelle che a Roma e più che mai nel Grande Ospedale si perdono un po'. Manuel è siciliano, della provincia di Palermo, anche se il papà lavora a Rieti da un paio di anni. La mamma di Stefano ha l'accento toscano, perché è nata all'Elba, e vive in campagna, nel viterbese. I genitori di Giorgio sono della provincia di Caserta, anche se abitano a Ostia, in un appartamento tra la pineta e il mare. Famiglie perbene, tutte. Bambini che fino a qualche mese fa salivano e scendevano dagli scivoli dei parchi, andavano all'asilo e si sporcavano le mani nella sabbia al mare.
Finché un giorno la loro infanzia uguale agli altri è finita, senza spiegazione. Hanno varcato la porta automatica del quarto piano del Grande Ospedale, sono saliti fino al decimo piano, hanno fatto tutta la trafila dei nostri bambini di cristallo: il ricovero, gli accertamenti, le Tac, l'aspirato midollare. Finché non è arrivata la sentenza: leucemia. Il tumore del sangue più comune di Op, quello che colpisce 3 bambini su 10. Quello che prevede le cure più lunghe, talvolta più dure: un protocollo di due anni, chemioterapici che ruotano, cambiano, fasi più dure di terapia ad alte dosi e periodi più sostenibili e sereni, cosiddetti "di mantenimento". Leucemia, il tumore che si beve il sangue e che toglie le forze, i bambini stanchi e svogliati che non vogliono mangiare, che non riescono a scendere dal letto.


Eppure oggi dalla leucemia si guarisce. Spesso, molto spesso, verrebbe da dire quasi sempre. Nove bambini leucemici su dieci tornano a casa da Op. Le famiglie sfinite, due anni di infanzia scippata e violentata, macerie e cocci rotti ovunque, una vita sottosopra da prendere e rifare daccapo. Ma se ne esce, dicono i numeri. Sempre di più. Grazie alle cure, ai farmaci, alla medicina che passano gli anni e non si ferma. Trova strade, percorsi, vie nuove, soluzioni.


Se ne esce anche grazie a un farmaco, che i genitori dei bambini leucemici conoscono bene. Si chiama Purinethol. Nome un po' spaziale, che è in realtà la sigla commerciale della mercaptopurina, un farmaco oncologico in commercio da più di dieci anni, ma ritenuto ancora molto efficace, soprattutto se  in combinazione con il Metrotexate. Farmaco che funziona, insomma, usato specialmente nel trattamento della leucemia linfoblastica acuta, della leucemia mieloide acuta ma anche di un'altra importante patologia piuttosto diffusa fuori dai confini di Op che si chiama morbo di Chron. Nella fase di mantenimento i bambini più piccoli, come i tre moschettieri di Op, ne prendono mezza pasticca. Le madri di Op la chiamano "la caramella" e anche se ne conoscono a memoria il bugiardino e la lista degli effetti collaterali, hanno imparato a spezzarla in due in modo perfetto, appoggiandola sul tavolo e pigiando forte con l'indice destro e quello sinistro. Insieme. Un colpo secco. Come insegnano col sorriso le infermiere in medicheria. 


Il Purinethol, da due mesi, in Italia, non si trova. "Farmaco carente", dice una nota ufficiale dell'Aifa, l'Agenzia del farmaco, senza lasciare certezze ai genitori di Op che però, da protocollo,  hanno mesi di Purinethol davanti. "Arriverà, lo importeremo, risolveremo", rassicurano i medici di Op, abituati a spegnere incendi. Ma intanto i genitori, nel dubbio, hanno rastrellato le ultime scatolette in farmacia (15 euro per 25 pasticche) e così la carenza è diventata scarsità assoluta del farmaco. Che a Roma, per dire, non si trova nemmeno in Vaticano. Qualcuno ha chiamato amici e parenti farmacisti, qualcun altro ha scoperto che in Svizzera il Purinethol si trova, anche se costa 50 euro e non 15. E però la vita dei bambini non ha prezzo. Così si è messo in macchina ed è andato. 


Perché il Purinethol sia carente non è ancora cosa così chiara. Noi genitori di Op, si sa, siamo animali rari come i nostri figli. E le diagnosi di leucemie infantili, in Italia, sono meno di 500 l'anno. Troppo poche, evidentemente, perché la politica insorga, i giornali ne parlino e le farmacie organizzino manifestazioni agli angoli delle strade. Non c'è mercato: né in termini di euro, né di consenso da campagna elettorale. E dove non c'è mercato, c'è silenzio. 


E però a noi genitori di Op, e forse anche a tutti i cittadini con ancora un senso civico nelle tasche, piacerebbe sapere alcune cose, sulla caramella spaziale salvavita che serve a Manuel, Stefano, Giorgio e ad altre centinaia di moschettieri sparsi per i regni di Op di tutta Italia.


Ad esempio, cosa è davvero successo con la Laboratoires Genopharmes, l'azienda francese che aveva l'autorizzazione a commercializzare il Purinethol. In uno dei pochissimi articoli di stampa usciti sull'argomento (quello di Cristiana Pulcinelli su l'Unità di domenica 10 giugno) si legge che l'azienda ha cessato le sue attività e che a chiuderne i battenti sia stata l'Agenzia del farmaco francese, che aveva riscontrato alcune irregolarità sulla commercializzazione di un'altro chemioterapico (sarebbe interessante capire quale) di cui erano stati distribuiti dalla Laboratoires Genopharmes lotti scaduti, che l'azienda si sarebbe poi rifiutata di ritirare dal commercio una volta scoperto l'inghippo. Sembra evidente, da queste informazioni, che produzione e distribuzione del Purinethol, insomma, fossero in mani sbagliate. E dunque bene ha fatto l'Agenzia del farmaco d'oltralpe a ritirare l'autorizzazione. Ma adesso? Quanto ci vorrà per riassegnarla? In quali laboratori sarà prodotto il Purinethol? E in che tempi? E che succede alla distribuzione italiana, sul cui fronte sembra peraltro aperto un contenzioso tra le ditte Glaxo e Aspen per chi debba razionare quelli che sono evidentemente, da quel poco che si comprende, gli ultimi flaconi in circolazione? 


Nel frattempo, l'Aifa fa sapere che "non si può prevedere quanto durerà questa carenza". E però - buona notizia per le famiglie - autorizza in questi giorni l'importazione controllata del prodotto, con una limitazione importante: è certo che il farmaco non sarà più reperibile in farmacia, ma solo in distribuzione razionata in Asl e ospedali. 
La collega Manuela Campitelli, che ha un blog sul sito del Fatto Quotidiano ed è autrice di un altro rarissimo e prezioso articolo sul tema, avanza, però, un timore lecito e deprimente:  quello che dietro questa operazione, ci sia la volontà di ricontrattare il costo del farmaco con il ministero, visto che in Italia il Purinethol si trova a prezzi inferiori rispetto al resto d’Europa. 
Sarebbe interessante capire cosa pensa il Ministero della Salute di questa vicenda, la cui voce si distingue per l'assordante silenzio, nonostante un'interrogazione parlamentare pendente della parlamentare Pd Luciana Pedoto, unico deputato su oltre mille parlamentari della Repubblica ad essersi occupata del caso. Con un avvertimento, però. E cioè che il signor Ministro si prepari bene, prima di prendere parola sulla questione, perché noi genitori di Op abbiamo smesso da tempo di credere alle favole, anche se ai nostri moschettieri invincibili non intendiamo smettere di raccontarle.

domenica 10 giugno 2012

Un pomeriggio insieme nel Grande Ospedale


Domani, nel Grande Ospedale, succede una cosa. E' una cosa bella, ma per certi versi difficile e delicata per chi scrive questo blog e per chi vive quello che in questo blog è scritto.

Da qualche settimana siamo passati dalla Rete alla carta. Dal blog a un piccolo libro pubblicato dalle edizioni la meridiana che raccoglie gli appunti di viaggio che abbiamo condiviso in questi mesi dolenti e cruciali per la nostra famiglia e per le molte altre incrociate lungo il nostro cammino.

Domani un altro passaggio ancora. Dalla carta agli occhi, provando davvero a incrociare le vite e gli sguardi. Presentiamo il libro, a Roma, al Policlinico Gemelli che in questi mesi ci ha accolto ed è stato per noi una seconda casa.  Proviamo a tenerci stretti, un attimo, e a spiegare bene perché.

Perché un blog così. Perché un libro. Perché smettere di nascondere la malattia e mettersi a parlarne, a condividerla, a spezzare il tabù che accompagna sempre chi è malato di tumore e che si fa spavento quando il tumore invade lo spazio obbligatoriamente felice e incontaminato dell'infanzia.

Domani ci proviamo. Tutti insieme, contro la vergogna della malattia, in uno spazio come quello ospedaliero che non è solo luogo di sofferenza, isolamento e costrizione ma anche di incontro, relazione e cura.

Nostro figlio non ci sarà, in questa come in tutte le altre presentazioni del libro. Resterà con i nonni, se ne andrà a giocare al parco o a prendere l'aria buona al mare. Non è lui il punto di quello che abbiamo da dirci. Il blog e il libro non raccontano la sua storia. Partono da lì, è vero, ma per incrociarne molte altre e provare a raccontare quello che succede, ogni anno, in 1500 famiglie italiane costrette a traslocare, senza scelta e senza preavviso, dalla loro vita di sempre al regno di Op.

Ci saranno, invece, Concita De Gregorio, che ha curato con amore e generosità l'editing del libro e ne ha scritto l'introduzione, Carolina Crescentini, che da giorni con serietà e partecipazione prepara un reading di alcuni brani del libro e il prof. Riccardo Riccardi, direttore della Divisione di Oncologia pediatrica del Policlinico Gemelli.

Se siete a Roma o nei dintorni, vi aspettiamo.

venerdì 1 giugno 2012

Recensione di parte di un film speciale. Per Valérie.

Esci, una sera, e vai a ballare. Lo vedi, lui vede te. Esplode un amore pulsante e senza pensieri che inizia a rotolare sui marciapiedi e sotto le lenzuola. Ne nasce un figlio che come tutti i figli del mondo profuma di promesse e futuro. Che all'inizio ti mette l'esistenza a soqquadro e poi lentamente inizia a colorare l'aria. Dorme tra te e suo padre nel letto, fa il bagno nudo nella vasca e fa schizzare con i piedi l'acqua e il sapone. La vita che volevi è arrivata. Si incastra ai progetti di ieri e domani, scivola leggera e ha un buon sapore. Finché un giorno quel figlio smette di mangiare. Vomita, non si tiene bene in piedi anche se dovrebbe già camminare. Ha un occhio che sembra bloccato e non segue più le cose. Starà bene, ti ripeti. Certo che starà bene, ti ripetono tutti. Ma poi all'asilo se ne sta appoggiato al muro, in disparte. Smette di sorridere, vomita ancora. E allora chiami il pediatra per capirne di più. “Serve una Tac, bisogna correre in ospedale”. E tu non hai nemmeno il tempo di preparare la valigia, di accorgerti che la prima parte della tua vita si è dissolta in un istante. Sei già altrove. Sul fronte. Tra lettini con le sbarre, flebo, medici e infermieri, pianti di bambini in sottofondo a martellare i pensieri. A casa, a tinteggiare la pareti di fresco con il rullo e la vernice, non si torna. Senza scelta e senza colpa il posto adesso è la trincea. Senza scelta e senza colpa, la guerra è dichiarata.

Si chiama così il secondo film di Valérie Donzelli (il primo tradotto in italiano), che ha incantato il pubblico di Cannes un anno fa e candidato agli Oscar 2012 per la Francia come miglior film straniero. Da ieri arriva in trenta sale italiane, per volontà ostinata e contraria della Sacher film di Nanni Moretti, che mentre fuori è già estate lancia una pellicola dolente e spregiudicata, che racconta di due giovani genitori e del tumore al cervello di loro figlio di 18 mesi. Nel film, insieme a Valérie Donzelli, ci sono Jérémie Elkaïm, il suo ex compagno, e Gabriel, loro figlio. Insieme, sono reduci da un vero sequestro di tre anni e mezzo in un reparto di oncologia pediatrica della Francia. Vero intervento al cervello, vero reparto di isolamento, vera camera sterile, veri litri di chemioterapia, per curare Gabriel, a cui, all’età di un anno e mezzo, era stato diagnosticato un tumore cerebrale rabdoide che, sulla carta, aveva il 10% di possibilità di guarigione. Ma oggi Gabriel di anni ne ha otto e i capelli a caschetto, sulle spalle. Come tutti i bambini della sua età ama Shrek, il Nintendo Ds, va alle elementari ed è il primo della classe in matematica.

La guerra è dichiarata racconta una cosa di cui nessuno parla mai: il cancro dei bambini e quello che succede nelle famiglie che devono affrontarlo. Che solo in Italia sono 1500 all'anno. Lo fa nel modo in cui non t'aspetti. Senza indugiare sulla malattia e sul dolore dei bambini, ma scegliendo di scommettere sul punto di vista dei genitori e sulla loro testarda resistenza al dolore, alla fatica e alla disperazione. Sulla loro capacità di reagire e rispondere colpo su colpo alla rassegnazione e allo sgomento. Mantenere il controllo senza perdere la testa. E salvare l'amore per la vita. La fiducia, la speranza di farcela. Perché i tumori infantili, anche se non dovrebbero esistere, non sono una condanna a morte e perché dai tumori infantili, come è successo al figlio di Valérie, dopo cure lunghissime e sfinenti, si può guarire.

La fusione tra poesia e azione è perfetta. E l'equilibrio incredibile tra incubo e favola si mantiene sempre, per incanto. In alcuni momenti, c'è qualche punta manierista, quasi barocca. Una voce fuori campo che spesso non serve; una canzone d'amore a frenare di botto il precipitare degli eventi subito dopo la notizia; uno zoom da mal di testa che accompagna l'incontro tra i genitori e il neurochirurgo; la scelta stessa dei nomi dei protagonisti carichi di un misticismo primordiale e forse eccessivo: Romeo, Giulietta, Adamo. Ma sono dettagli che si lasciano perdonare. Anzi rimarcano l'energia di una regia spregiudicata e quasi libertaria, che si accompagna a una colonna sonora altrettanto sorprendente, che alterna le stoccate di violino al punk-ska, le ballate voce e chitarra alla techno-house. 

Alcuni dei cinema in cui trovarlo: a Roma Nuovo Sacher, Mignon e Cineland; a Milano Eliseo Multisala, Anteo Spaziocinema; a Torino Nazionale; a Bari Il Piccolo; a Genova City; a Cagliari Greenwich d'Essay; a Firenze Fiorella Atelier; a Napoli Delle Palme

martedì 22 maggio 2012

La guerre est déclarée


Il mio grande amico Hervé Guerrisi, italo-belga, attore, regista e artista di grande valore ama tradurre testi letterari e teatrali dall'italiano al francese. Lo fa per passione e anche per professione. Io non conosco il francese, ma mi dicono che Hervé sa trovare le giuste parole per incastrare lingue diverse e farle suonare come si deve, tenendo insieme musica e significato.

Hervé mi ha fatto un regalo. L'ho trovato qualche minuto fa nella mia casella di posta elettronica. Ha tradotto per me il post "La guerra è dichiarata", dedicato al film omonimo di Valerié Donzelli, in uscita il 1 giugno in Italia. Un film che, come sa bene chi legge queste pagine, io ho visto in anteprima insieme a un gruppo di giornalisti lo scorso aprile e racconta in immagini molte delle cose che qui io provo a descrivere a parole. 

Forse in francese a leggere questo post potrà essere la stessa Valerie, o i medici dell'Istituto di Oncologia pediatrica Gustave Roussy. La moglie di Hervé, Gaia, attrice di teatro e per me più che una sorella, ha scritto a Valerie una bellissima lettera per segnalarglielo. 


Sarebbe bello se questo blog e quel film si sfiorassero un attimo, abbiamo pensato. Anche solo il tempo della lettura. E quindi ci abbiamo provato.  Come facciamo sempre. 
Perché crediamo che fare rete sia una delle possibili strade per stare meglio e non sprecare il dolore.
 
Paola (insieme a Hervé e Gaia)

***

L'avant-première d'un film vient d'avoir lieu en Italie. Un film spécial, réalisé avec peu de moyens et une équipe de dix personnes. Un film français présenté à Cannes en Août dernier. "Déclaration de Guerre" est le titre enragé de cette histoire en équilibre entre cauchemar et fable, qui semble inventée mais qui est bien vraie. Elle semble parler de la mort mais chante l'amour et toutes ses notes.

Pour nommer ses personnages, la metteur en scène Valérie Donzelli - qui est aussi l'actrice principale et l'objet du scénario - ose une acrobatie qui vole dans la Bible, le théâtre et la littérature. Roméo, Juliette, Adam. Un père et une mère, fous d'un amour sans pensées, et leur premier fils face à une aventure digne du premier homme de la terre. Un couple amoureux et enthousiaste face à la vie et un enfant à qui l'on découvre, au centre de la tête, ce qui était dans le ventre du mien: Une tumeur maligne, inexplicable et étrangère.

Tout change. Se précipite, tombe, finit, recommence. Et c'est ce changement de dimension que le film de Valérie dessine avec grâce et courage, douleur et orgueil, dans les moindres détails.

Il y a les premières suspicions de la maladie: Des vomissements, une gonfleur en dessous de l'oeil, Adam qui essaye de marcher mais qui ne tient pas debout. Il y a les mots des institutrices et du pédiatre: tout est normal, ne vous inquiétez pas, chaque enfant est différent, il grandit à sa façon, il a son rythme, sa route, ça va passer. Il y a les premières vérifications à l'hôpital: des médecins qui entrent par groupes, le tube de la perfusion qui ressemble à une laisse, l'explication de l'anesthésiste, les analyses, les infirmières, des portes qui s'ouvrent, se ferment, se rouvrent, des civières qui viennent te chercher, le petit lit avec les barreaux et les roues qui ressemble à une cage, ton fils à l'intérieur, toi qui au lieu de lui tenir la main t'agrippe au fer glacé, le couloir au sol vert eau, comme dans tous les hôpitaux, le cylindre d'acier du scanner. Silence, un long son mécanique, lumière rouge clignotante sur l'écran. Respiration. Mal au ventre. Lumière rouge, encore. Encore le silence.

Puis la sentence. La nouvelle qui t'attrape la vie par les cheveux, sans raison, la piétine- casse les os, les projets, les rêves- et la jette ailleurs. L'explosion, les morceaux de terre, douleur physique, terreur, éclats de verre partout. Barrières autour de l'accident, attention, défense d'entrer, de passer, de piétiner. Tu es pris dans une embuscade mais tu voudrais te rendre immédiatement, parce qu'au fond, mieux vaut en finir rapidement. C'est insupportable, tu n'y arriveras pas. Puis tu cherches ton souffle, tu le trouves, tu te relèves. Et tu comprends que la guerre est déclarée. Et tu n'y échapperas pas.

Mais la guerre ça s'apprend.

Il faut apprendre à tirer, pour se défendre. A poser les bonnes questions, à choisir sans conditions, à ne pas perdre de temps ni gaspiller l'air.
A protéger le coeur et la tête de tout ce qui vole bas et ne sert pas. Il faut étudier la stratégie, construire patiemment un coin avec des coussins, des draps, des couvertures et un beauty case pour les journées dans les tranchées. Il faut organiser les troupes, nommer les généraux, les lieutenants, chacun à son poste.

Et il faut économiser l'eau, mais arroser l'amour. Se serrer fort pendant que tombent les bombes. Dans le vacarme, on perd l'équilibre, il faut être deux pour rester debout. On résiste, on parle, on pense, on se corrige et se protège. On supporte. On attend la fin d'une opérations de dix heures en lisant le journal et en buvant du café.

A deux, on réussit à rire pour ne pas succomber, on se relaie à l'hôpital pour ne pas s'écrouler, on se partage les questions aux médecins, on trouve la force d'aller à une fête, un soir, même si il n'y a rien à fêter, rien à dire, rien à boire, rien à expliquer. On est moins en danger si on reste complices et indivisibles, du même côté, pour supporter la torture de rester des mois devant la vitre d'une chambre d'isolement à côté de la machine à café qui pue le brûlé, et regarder la ville qui au loin vit encore et bouge. On perd son travail, et ça n'a pas d'importance. La carte de crédit coupée en deux avec des ciseaux parce que le compte est à sec, et ça n'a pas d'importance. Des morts et des blessés sur le champ de bataille, dans le lit à côté du tien, et ça n'a pas d'importance. Ton fils est sur un lit et prend des litres de chimio au lieu d'être au parc, à l'école, chez les grands-parents, sur les manèges. Et ça n'a pas d'importance. Non, ça en a de l'importance. Et comment. Mais il est beaucoup plus important de résister à ses côtés, sans broncher, parce que de toute façon ça va finir, ça ne peut pas durer éternellement. Elle finit, la guerre, Elle finit toujours, tôt ou tard.

Dans le film de Valérie, il y a Jérémie et Gabriel Elkaim. Dans la vie, ils sont son vrai compagnon et son vrai fils. Ensemble, ils sont les rescapés d'un enfermement de trois ans et demi dans un Règne de OP de France, qui est peut-être le plus avancé et à l'avant-garde d'Europe: l’Institut de cancérologie Gustave Roussy. Le dossier clinique de Angelo est passé par là aussi, pour une consultation importante avant l'opération. C'est par là que passent les dossiers cliniques des tumeurs infantiles les plus rares, complexes et aux diagnostiques les moins heureux de toute l'Europe. Valérie et Jérémie doivent la vie de leur Gabriel aux médecins du Gustave Roussy. Gabriel avait un an et demi lorsqu'ils ont diagnostiqué une tumeur cérébrale rhabdoïde qui sur papier avait 10% de chance de guérison. Aujourd'hui, Gabriel a huit ans et la coupe au bol. Comme tous les enfants de son âge, il aime Shrek, la Nintendo DS, il va à l'école et est le premier de la classe en mathématiques.

"Déclaration de Guerre" nous dit que tout cela s'est vraiment passé.
Ca peut arriver. Et quand ça vous arrive de sortir la tête haute d'une guerre comme celle là, ça vaut la peine de rembobiner et de le raconter à ceux qui sont encore sous les grenades. Ca peut finir bien. Ne vous laissez pas mourir quand le cancer fait feu. Au milieu de la tête, de la poitrine, du ventre. Peut-être que la vie est partie se cacher mais peut-être qu'elle reviendra. Il faut savoir supporter l'insupportable. Il faut savoir attendre.

Devant l'écran, on pleure du ventre et on rit du coeur. Le film est un hymne à la vie, une invitation à la résistance, à la confiance, à l'optimisme et à la lutte. Nanni Moretti et la Sacher le distribueront en Italie à partir du mois de juin et promettent de le maintenir en salle au moins tout l'été. Cherchez-le. Faites-vous ce cadeau, sans peur. Si je n'avais pas écrit ce blog et si quelqu'un m'avait demandé de raconter mon histoire, la manière dont je l'ai vécue et comment je me suis sentie pendant ces derniers mois, j'aurais tranquillement pu lui offrir un dvd du film de Valérie. Et si j'avais pu traduire mes mots en images, je l'aurais fait exactement comme cela.

sabato 12 maggio 2012

L'ulivo nel cemento

Chissà com'è. Come sarà non appena quella stanza si apre. Sembra sia questione di ore. Minuti, forse. Devono deciderlo i medici di Op. Devono arrivare i risultati delle analisi. Dipende dal numero delle piastrine. Emoglobina, neutrofili, l'eco del fegato di controllo. Però è finita. O al massimo manca poco. Doriana e Martina stanno per uscire dalla stanza, dopo quattro settimane di alto isolamento. Stanno per tornare fra noi, libere nel corridoio e poi presto anche a casa, a vedere questo sole di maggio.

La temeva, Doriana. La nominava da mesi quella prova che attendeva sua figlia prima o dopo, in vista dell'autotrapianto delle cellule staminali. Si chiama camera antisettica. Vietato entrare, se non per infermieri, medici e portantini. Fuori Ignazio, il padre di Martina. Per parlare con moglie e figlia solo una piccola finestrella di vetro incastrata nella porta, a cui incollare la faccia. Fuori nonno Vincenzo, avanti e dietro per giorni dal reparto alla casa d'accoglienza con le buste dei panni. Fuori le altre madri, con cui Doriana ad ogni ricovero saliva in terrazzo a fumare e a guardare quel piccolo ulivo piantato nel cemento del Grande Ospedale, che ricordava un po' l'aria di casa.

Casa di Doriana, Ignazio e Martina sta lì dove la Puglia si fa vera e non si ripete, tra Oria, Francavilla e Grottaglie, all'incrocio tra la provincia di Brindisi e quella di Taranto. Chiese bianche, muretti a secco e ceramiche, alle porte del Salento. Nella loro casa succedevano cose semplici, come in tutte le case del mondo. Ignazio andava e veniva da un lavoro che amava e sapeva fare molto bene, in un' azienda importante, stimato da capi e clienti. Martina giocava con i cuginetti sul ballatoio, controllata dai nonni a vista. Doriana lavorava in un Piccolo Ospedale come infermiera. Reparto Ostetricia, a far nascere bambini, ignorando l'esistenza stessa del Regno di Op. Fino all'agosto maledetto e ghiacciato di un anno fa. Quando si è scoperto che Martina stava male. E tutto è finito. Senza ragione, di colpo.

La Tac, la biopsia, la risonanza, la Pet. E la diagnosi, una mattina di inizio settembre, di quelle che in Puglia si va ancora al mare. Linfoma di tipo B, diffuso. Un protocollo di chemioterapia lungo, severo. Doriana e Martina in ospedale, a dormire una sull'altra nello stesso letto. Ignazio avanti e dietro tra Roma, Brindisi e Milano, a tenersi stretto il lavoro, dal lunedì al venerdì, e ogni sabato e domenica  senza neanche farsi la barba a fare disegni con i colori a spirito insieme alla figlia, in ludoteca. I nonni  a fare i turni a fianco ai ragazzi. 1200 chilometri andata e ritorno, senza battere ciglio, senza saltare un week end. Alternandosi  senza un lamento, con le mozzarelle fresche nella borsa termica, lo zaino in spalla come avessero trent'anni e non settanta, i biglietti dell'autobus nel portafogli, ogni settimana.

Mentre Martina cambiava pelle e imparava un'infanzia nuova. All'inizio scalpitando. Chiedendo della cugina, dei compagni di giochi, del paese, delle maestre d'asilo. Piangendo di rabbia e di paura a ogni prelievo, nascondendosi sotto le lenzuola. Poi imparando a correre anche col tubo della flebo attaccato al centro del petto. Cantando la canzone di Emma e dei Moda a tutti quelli che le passavano davanti.
Giuro. La canzone che dice: si sveglierà il tuo cuore in un giorno d'estate rovente in cui sole sarà. E cambierai la tristezza dei pianti in sorrisi lucenti, tu sorriderai.

Incredibile Martina. In grado di saltare sul materasso anche durante una trasfusione. Di organizzare gare con gli altri bambini lungo i corridoi. Di rubare porzioni di fagiolini dal vitto dei compagni di stanza, per la sua insolita passione - a 4 anni  e 5 cicli di chemio addosso - per le verdure. Incredibile Martina. Che la sera chiama la nonna al telefono per dirle: "Dai nonna. Adesso ho preso un'altra medicina per far andare via la bua che mi resta. Tu non ti preoccupare che quando la medicina fa effetto torno a casa".

Chiudila in camera antisettica, una così, ci siamo ripetute in reparto noi mamme per settimane, insieme a Doriana, aspettando il momento. Quando le passa?

E invece passano, trenta giorni senza nemmeno le corse in corridoio e i giochi in ludoteca. Ce l'ha fatta Martina, buona buona e stretta a Doriana, a sfogliare Topolino e scaricare canzoni da You Tube. Chemio ad alte dosi in flebo, "azzeramento dei valori", trapianto delle staminali. Piano piano, un giorno dopo l'altro sul calendario.

E ce l'ha fatta pure Doriana, senza marito, senza sigarette. Sola con sua figlia e la paura. Medici e infermieri avanti e indietro. Telefono cellulare, riviste, libri, computer portatile, qualche film in dvd. In una stanza quattro metri per quattro, senza poter uscire, perché ogni possibile contatto con i valori a zero è un pericolo mortale. Perché quando si fa il trapianto delle staminali funziona così, e basta. Una grande finestra da tenere chiusa, una doccia sotto cui sciogliere i pensieri, una tv per guardare i cartoni e il tg.

Vorrei essere là davanti, quando si apre la porta della stanza. Vedere i loro occhi, l'espressione del viso. Scandire "brave", ad alta voce. Poi sentire ancora Martina cantare, vederla correre verso il padre, con addosso la maglietta di Titti e Gatto Silvestro che porta sempre. E gli stivaletti marroni col laccetto. E intanto togliere prima il cellophane e poi la carta stagnola da un pacchetto di sigarette nuovo di zecca, portarmi  Doriana sul terrazzo dell'undicesimo piano, far scorrere il pollice sulla rotella dell'accendino, lì davanti all'ulivo nel cemento che ricorda la nostra Puglia verde, marrone e azzurra, e offrirle finalmente da accendere. Anche se io una sigaretta non l'ho fumata mai.

sabato 28 aprile 2012

La guerra è dichiarata


E’ appena uscita in Italia l’anteprima di un film speciale, realizzato con pochi mezzi e uno staff di dieci persone. Una pellicola francese presentata a Cannes lo scorso agosto. “Dichiarazione di Guerra” è il titolo arrabbiato di questa storia a mezz’aria tra incubo e favola, che sembra finta e invece è vera. Sembra parlare di morte e invece canta la vita con tutte le note.

La regista, Valérie Donzelli - che poi è anche attrice protagonista e oggetto di copione - per i nomi dei suoi personaggi osa un’acrobazia e saccheggia Bibbia, teatro e letteratura. Romeo, Juliette, Adam. Un padre e una madre, pazzi d’un amore senza pensieri, e il loro primo figlio a cui spetta un’avventura da primo uomo della terra. Una coppia innamorata ed entusiasta della vita e un bambino a cui un giorno scoprono al centro della testa quello che nel mio era al centro della pancia: un tumore maligno, inspiegabile e alieno.

Tutto cambia. Precipita, cade, finisce, sfinisce. Ed è questo passaggio di dimensione che il film di Valérie disegna, con grazia e coraggio, dolore e orgoglio, in ogni dettaglio.

Ci sono i primi sospetti della malattia: conati di vomito, un gonfiore sotto l’occhio, Adam che prova a camminare ma non si tiene in piedi. Ci sono le rassicurazioni delle maestre e del pediatra: tutto normale, non si preoccupi, ogni bambino è diverso, cresce a modo suo, va avanti come viene, ha i suoi tempi, la sua strada, passerà. Ci sono i primi accertamenti in ospedale: medici che entrano a gruppi, il tubo della flebo che sembra un guinzaglio, la spiegazione dell’anestesia, le analisi, le infermiere, porte che si aprono, chiudono, riaprono, portantini che vengono a prenderti, il lettino con le sbarre e le ruote che sembra una gabbia, tuo figlio dentro, tu che al posto di tenergli una mano ti aggrappi al ferro ghiacciato, il corridoio col pavimento verde acqua a quadroni di ogni ospedale, il cilindro d’acciaio della Tac. Silenzio, suono lungo e meccanico, luce rossa intermittente sul display. Respiro. Mal di pancia. Luce rossa, di nuovo. Ancora silenzio.

Poi la sentenza. La notizia che afferra la tua vita per i capelli, senza una ragione, la prende a calci – spezza le ossa, i progetti, i sogni – e la sbatte altrove. L’esplosione, i pezzi per terra, dolore fisico, terrore, vetri rotti ovunque. Transenne attorno all’incidente, attenzione, non entrare, non passare, non calpestare. Un agguato alle spalle, tu che vorresti arrenderti subito, perché sarebbe meglio finirla presto, in fondo. Non si sopporta, non ce la puoi fare. Poi invece cerchi il fiato, lo trovi, ti rialzi. E capisci che la guerra è dichiarata. E non si sfugge.

Ma la guerra si impara.

Si impara a sparare, quando c’è da difendersi. A fare le giuste domande, a scegliere senza condizionamenti, a non perdere tempo né sprecare il fiato. A coprirsi il cuore e la testa da tutto quello che vola basso e non serve. Si studia la strategia, si costruisce con pazienza un angolo con i cuscini, le lenzuola, le coperte e un beauty case per i giorni in trincea. Si organizzando le truppe. Si nominano i generali e i tenenti, a ognuno il suo posto.

E si risparmia l’acqua, ma si annaffia l’amore. Ci si tiene stretti mentre cadono le bombe. Nel frastuono si perde l'equilibrio, solo in due si resta in piedi. Si resiste, si parla, si pensa, ci si corregge e protegge. Si sopporta. Si aspetta la fine di un’operazione di dieci ore leggendo il giornale e bevendo il caffè.

In due si riesce a ridere per non soccombere, ci si dà il cambio in ospedale per non crollare, ci si divide le domande per i medici, si trova la forza di andare a una festa, una sera, anche se non c’è niente da festeggiare, niente da dire, da bere, da spiegare. Si è meno in pericolo, se si resta complici e indivisibili, dalla stessa parte, sopportando la tortura di restare per mesi davanti alla vetrata di un reparto di isolamento, accanto alla macchinetta del caffè che puzza di bruciato, a vedere la città che lontano ancora vive e si muove. Si perde il lavoro, e non importa. La carta di credito tagliata in due con le forbici perché il conto è a secco, e non importa. Morti e feriti sul campo, nel letto accanto al tuo, e non importa. Un figlio a letto a fare chemio a litri e non al parco, a scuola, dai nonni, sulle giostre. E non importa. Anzi importa, in realtà. Eccome. Ma importa molto di più resistergli accanto, senza franare, perché tanto finisce, non può durare in eterno. Finisce, la guerra. Finisce, sempre, prima o dopo.

Nel film, insieme a Valérie, ci sono Jerémie e Gabriel Elkaim. Nella vita sono il suo vero compagno e suo vero figlio. Insieme, sono reduci da un vero sequestro di tre anni e mezzo in un Regno di Op della Francia, che poi è forse il Regno di Op più importante e all’avanguardia d’Europa: l’Institut de cancérologie Gustave Roussy. La cartella clinica di Angelo è passata anche da lì, per un’importante consulenza, prima dell’operazione. Ed è da lì che passano le cartelle cliniche dei tumori infantili più rari, complessi e a prognosi infausta di tutta Europa.Ai medici del Gustave Roussy Valerie e Jeremie devono la vita del loro Gabriel, a cui, all’età di un anno e mezzo, era stato diagnosticato un tumore cerebrale rabdoide che, sulla carta, aveva il 10% di possibilità di guarigione. Oggi Gabriel di anni ne ha otto e i capelli a caschetto, sulle spalle. Come tutti i bambini della sua età ama Shrek, il Nintendo Ds, va alle elementari ed è il primo della classe in matematica.

Dichiarazione di guerra” racconta che tutto questo è successo davvero. Può succedere. E quando succede, di uscire in piedi da una guerra così,  vale la pena mandare indietro il nastro, raccontarlo a chi sta ancora sotto le granate. Può finire bene. Non lasciatevi morire, quando il cancro spara. Al centro della testa, del petto o della pancia. La vita è andata a nascondersi, ma magari dopo torna. Bisogna saper sopportare l’insopportabile. Bisogna saper aspettare.

Davanti allo schermo, si piange di pancia e si ride di cuore. Un film che è un inno alla vita, un invito alla resistenza, alla fiducia, all’ottimismo e alla lotta. Nanni Moretti e la Sacher lo distribuiranno in Italia a partire da giugno e promettono di tenerlo in sala almeno tutta l’estate. Cercatelo. Fatevi questo regalo, senza avere paura. Se non avessi scritto questo blog e qualcuno mi avesse chiesto qualcosa della mia storia, di come l’ho vissuta e di come mi sono sentita in questi mesi, avrei potuto tranquillamente rispondere regalando un dvd del film di Valérie. E se avessi saputo tradurre le mie parole in immagini, lo avrei fatto esattamente così.


domenica 8 aprile 2012

Una bella sorpresa


Oggi è Pasqua, ma poco importa. Almeno finché Michela non esce da terapia intensiva. Perché Michela io l'ho vista entrare lo scorso agosto, con le infradito ai piedi, il caschetto lungo le spalle, lo sguardo spaesato di chi passa in ambulanza da una spiaggia vicino Latina all'ultimo piano del Grande Ospedale e non sa bene perché. Ho aperto io la porta a vetri del reparto alla mamma e ai nonni quando sono arrivati con le valigie, poche ore prima di Ferragosto, balbettando rassicurazioni, battute e frasi fatte pur di alleviare la loro disperazione preventiva. Ho aspettato io con loro i risultati della Tac, giocando con Michela in corridoio, sperando che il nostro non fosse il suo posto, che quei dolori al centro del petto fossero un falso allarme dal facile rimedio. Ho portato io sua madre in terrazzo per un pianto liberatorio e un abbraccio lontano dagli occhi della piccola quando la diagnosi le ha spaccato il cuore e ribaltato l'esistenza. E' da allora che si va avanti insieme.

Michela ha un neuroblastoma metastatico. Diffuso, crudele. A otto anni ha dovuto sopportare cicli di chemioterapia senza sosta, radioterapia battente, antibiotici, cortisone. Giornate di alto isolamento, blindata nella sua stanza senza poter uscire. Trasfusioni, notti attaccata al saturimetro con il cuore affaticato e sfinito da ogni cosa. Inoperabile, avevano detto all'inizio. Aggettivo che alle orecchie di noi genitori suona sempre come definitivo, quando arriva come un proiettile alla schiena dai dottori, insieme alla diagnosi di un tumore maligno. E così lo confondiamo con una sentenza senza appello. E per fortuna, clamorosamente, sbagliamo.

Le chemioterapie hanno ridotto le lesioni di Michela e il Grande Ospedale ha chiamato dall'Ospedale dei Piccoli il chirurgo che ha tolto il drago dalla pancia di mio figlio. E gli ha chiesto di ripetere la magia con la sua inseparabile amica di avventure.

Ho saputo che Michela sarebbe andata sotto i ferri il giorno prima dell'intervento, mentre ero in day hospital a fare i prelievi di routine. Per caso, da un'altra mamma incontrata di rientro da un caffè.  "L'hanno appena ricoverata, scende in sala operatoria fra qualche ora". Sono rimasta pietrificata dalla gioia e dal terrore, finché non è passata davanti all'ascensore sua mamma e non ci siamo gettate le mani al collo, stringendoci in un abbraccio da fare male. "Abbiamo anche noi una possibilità", mi ha detto. Poi mi ha preso per mano, mi ha sussurrato "Facciamole una sorpresa, tirala un po' su perché piange da due ore dalla paura" e mi ha portato in stanza.

Mica piangeva, Michela. Stretta nel suo pigiama bianco e lilla, a braccia conserte come a proteggersi da sola, guardava i cartoni sdraiata sotto le lenzuola, in uno strano e composto silenzio. Assorta, concentrata come prima di un esame. Poi mi ha visto e mi ha sorriso. Le ho chiesto come stesse e ha preso a mordersi il labbro. "Ma lo sai che dopo l'intervento inizia la discesa e presto ce ne andiamo tutti da qui?", le ho detto prendendo a farle il solletico e sbacucchiandomela sulla testa, tutta piena di capelli corti e spinosi, appena ricresciuti grazie alla pausa chemio pre-operatoria. "Eh", m'ha detto. "Però ho paura lo stesso". Mica sono vigliacchi come noi, i bambini-soldato. La nominano, la paura. Senza lo stupido orgoglio di noi grandi a frenare la lingua. Senza problemi, senza vergogna. "Me lo dici tu come faccio a non avere paura?", mi ha chiesto sottovoce, abbassando lo sguardo e poi stringendomi la mano.

Non so bene perché, ho smesso di guardarla anch'io. E mi sono messa a guardare la sua flebo. Come a cercare una risposta da qualche parte, a chiedermi quale medicina miracolosa potesse convertire quella paura ingiusta e inevitabile in ottimismo, fiducia, coraggio, allegria. Ma il farmaco per la paura dei bambini di Op non esiste. Così ho dato un altro bacio a Michela, poi una stretta al braccio a sua mamma e suo papà e sono andata via.

E poi ho iniziato ad aspettare. Una telefonata, un cenno da qualche parte, qualcosa che mi dicesse che Michela aveva superato l'intervento e stava bene. Finché ieri il cellulare ha suonato e sua madre dall'altra parte mi ha detto quello che volevo sentire. Che le lesioni sono state tolte, che il chirurgo era contento, che qualche spiraglio di salvare davvero Michela si era aperto, finalmente, dopo mesi di fatica e sconforto. Certo adesso bisogna avere pazienza. E sperare, sperare forte.

Avremo pazienza, le ho detto. Che poi la Terapia Intensiva Pediatrica del Grande Ospedale la conoscono tutti, è un fiore all'occhiello, una cassaforte, il meglio che c'è per custodire i nostri figli speciali, restituirli alla vita senza fili e senza tubi. Ma noi in reparto senza Michela non sappiamo stare. C'è uno strano silenzio ora che manca lei davanti alla medicheria, col suo cellulare sempre acceso per fare le fotografie con le infermiere, o in ludoteca a spargere ovunque le banconote del Monopoli sul tavolo rosso. Bisogna dirlo ai medici della Tip che devono fare presto, a ridarcela. Io, intanto, l'uovo di Pasqua glie lo tengo da parte. Lo romperemo insieme, presto. E speriamo ci capiti, finalmente, una bella sorpresa.

mercoledì 28 marzo 2012

Il club dei quasi adulti

Sto imparando che ogni ricovero nel regno di Op annoda legami di sconvolgente intensità. Lascia entrare dal varco strettissimo della tua vita blindata e antibatterica, solitaria e antisociale, un incontro speciale, a cui fare spazio per forza. Tu arrivi in reparto trascinando valigie e buste piene di bottiglie d'acqua e pannocarta, salviettine usa e getta, spazzolino e dentifricio. Aspetti il tuo letto e il tuo turno, parcheggiato in ludoteca, davanti al viavai di carrelli, medicine e provette. Poi ti assegnano a una stanza da dividere con qualcun altro. Ti dicono il numero e cominci il trasloco, pronto a restarci anche per 7-10 giorni di fila. E solitamente trovi qualcun altro accanto al letto. Un'altra famiglia stretta tra il tavolo e la finestra, che mette in un angolo le sue cose, ti tende una mano, si presenta, fa spazio. I tuoi conviventi a tempo determinato, compagni di strada piazzati al centro del tuo dolore, con un dolore simile in pancia, che vedranno la tua faccia struccata la mattina e il colore del tuo pigiama, con cui finirai per cenare alla sera, fare i turni per andare in bagno, scambiarti la buonanotte e i tuoi segreti più profondi.  


"Scusa per la bacinella ai piedi del letto. Non dovrei vomitare, con questa terapia, ma se capita cercherò di non dare fastidio", mi ha detto a mezza voce Roberto, 16 anni ad aprile. Il nostro compagno di stanza per questo giro di giostra. Gli ho risposto con una smorfia imbarazzata, un "figurati" stretto tra i denti. E mi sono presentata a mamma Gianna, intenta con premura a fare spazio in bagno al mio asciugamani, piegando in due il suo sul passamani.


Roberto in reparto lo conoscono tutti. E' oggettivamente impossibile non adorarlo al quinto minuto di conversazione. Fino al luglio dell'anno scorso era un adolescente come tanti. Bravo ragazzo. "Figlio di famiglia", si direbbe al paese, giù a casa sua, in Basilicata, nel cuore del parco del Pollino, dove si mangia il miglior ragù di cinghiale del Mezzogiorno. Il padre, che è cuoco in un hotel a conduzione familiare, lo prepara che è un burro. E Roberto stava imparando, tra una lezione e l'altra della scuola alberghiera. L'estate scorsa, però, ha iniziato a sentire una pressione sotto l'occhio. Un giorno si è svegliato e ha sporcato il cuscino. Sangue dal naso. Lo hanno portato dal medico, trasferito a Potenza per una tac, poi di corsa nel regno di Op. Primo e secondo intervento, in endoscopia: rabdomiosarcoma. Una massa subdola e infame, tra la fine del setto nasale e la base del bulbo oculare. Dopo gli interventi ha iniziato le chemio. Sembrava tutto a posto, ma una cellula è migrata dall'altra parte, sotto l'altro occhio, e ha iniziato a moltiplicarsi ancora. Così è cominciata la radioterapia. Trentatrè sedute, di fila, senza soluzione di continuità. Per qualche settimana è sembrato tutto a posto. Poi ancora mal di testa, fitte. Altra chemio e il sospetto che la partita con il drago non sia finita.


Ho osservato Roberto a lungo, questi giorni. Ci siamo parlati e capiti, come si fa per ore con Astrid, e da poco anche con Viola, l'ultima arrivata del club dei quasi adulti. Angelo è la mascotte del reparto. Piccoli così, da queste parti, se ne vedono di rado. Loro invece sono gli adolescenti costretti a saltare i mesi più in fiore dell'esistenza. I non più bambini che non si bevono nessuna mezza verità e tempestano i medici di domande di ogni tipo. I ragazzi strappati dal muretto e dalla piazza del paese, dalle scorribande in Vespa e dalle serate in discoteca, dalle lezioni a scuola superiore, dalle serate dietro al bancone di un pub. Vanno su Internet,  sanno ogni cosa dei farmaci che le infermiere distillano in flebo, conoscono ogni dettaglio del male che li inchioda al letto e gli strappa a morsi gli anni migliori. Impedisce di botto serate a suonare la chitarra e partite di calcetto. Occupazioni di liceo e compiti in classe da sbagliare. Pizzeria, cinema, partite, playstation, telefilm. Lezioni di inglese, escursioni in campagna, nuotate al  mare.


I sedici anni violentati di questi ragazzi composti e brillanti, garbati e resistenti, silenziosi e guerrieri, che si scusano per il rumore che fanno le ruote della flebo quando devono andare in bagno, la notte, che disegnano fumetti e leggono saghe fantasy da mille pagine cercando di sognare un po', mi tormentano quasi più dell'arrivo dei bambini nuovi, che anche questa settimana ha contato due irragionevoli, insensati e ingiusti ingressi.


Penso alla mia adolescenza colorata ed esplosiva, alle mattinate a scuola, le domeniche in villa e poi allo stadio, le serate tra gli amici di sempre, le lacrime disperate per un'insufficienza al compito di greco o un'interrogazione andata male. E poi tutte le prime volte, di ogni genere e grado. Il primo bacio rubato, alla festa patronale, tra le urla al microfono dei giostrai e un chiosco di popcorn. Il primo viaggio all'estero, con mia sorella, in vacanza studio a Londra. Il primo sciopero, in corteo dalla stazione alla villa centrale, dietro a uno striscione disegnato con la bomboletta spray. Il primo mascara sulle ciglia, il primo ombretto, la prima matita sotto gli occhi. Le prime birre doppio malto. I primi concerti. I primi campeggi. I primi lavoretti estivi, a distribuire volantini o a fare animazione in spiaggia, davanti al mare.


Perché a me è andata così e non a loro? Perché Astrid non è a guardare le vetrine in centro con le amiche e Viola non può andare a fare le prove con il coro della chiesa? Perché Roberto non può starsene tranquillo al paese a imparare tra i fornelli il mestiere di suo padre? Perché ha dovuto smettere di studiare e giocare a pallone per farsi 7 ore di pulmann a settimana e venire qui, nel Grande Ospedale, a farsi avvelenare, lungo nel letto, annoiato davanti a un quiz tv?


Dispenso promesse ai miei nuovi fratelli minori, ogni volta che mi riprendo la mascotte e torniamo a casa. Ad Astrid ho promesso che appena finisce le chemio, a maggio, passo a prenderla in macchina e ce ne andiamo al parco a passeggiare, così lei sgranchisce la gamba malata e si rimette in pista e io perdo i chili di troppo accumulati in questi mesi di disordine e tormenta. A Viola ho promesso che dovessi girarmi dieci librerie troverò il dannato quarto volume della saga di Twilight che va cercando da due settimane. A Roberto ho promesso che verrà presto un tempo in cui se ne tornerà tranquillo nell'alberghetto di famiglia, giù in Basilicata. E una sera arriveremo in reception io, mascotte e papà. E lì dovrà mettermi sul fuoco il famoso ragù di cinghiale di famiglia. Al diavolo la dieta, i brutti ricordi e la malinconia. E dovrà portarmi in giro per questo famoso Pollino, di cui ormai in reparto sappiamo ogni dettaglio: i boschi, il fresco di quando scende la sera, le vette delle montagne in lontananza. Ce ne andremo per le strade del nostro sud, incontreremo gli altri quasi adulti del paese. Ci drogheremo di ossigeno e cose belle. Io, il mio giovane amico e la piccola mascotte. Accadrà.





lunedì 12 marzo 2012

Dieci mesi

Fuori c'e' il sole, un ventoso inizio di primavera, le solite mamme con i passeggini distratte dalle vetrine, gente che corre veloce senza sentire magari il sapore. Rumori, movimento, cicliche banalita'. A casa c'e' silenzio, una noia che morde le gambe, giocattoli dappertutto, appunti in disordine, libri mai iniziati per mancanza di tempo, dolore da soffocare in nome della quotidiana resistenza obbligatoria.

Niente ospedale per qualche giorno: una tregua corrosiva che ci sorprende sempre e comunque calendario alla mano, a fare calcoli numerici sui cicli di chemio a venire, le curve dei globuli bianchi che scendono e risalgono, le tac di controllo, i ricoveri del prossimo mese.

Intanto un po' di sana panchina tocca anche a noi. Sbarrati tra quattro mura, congelati in una sospensione senza data di scadenza che cerchiamo di tradurre in normalita'.

Mi sono messa a contare: sono passati dieci mesi dalla scossa di terremoto che ha fatto franare ogni cosa. Il tempo della malattia di mio figlio ha superato quello della gravidanza. L'attesa festosa di una vita di favole e l'irruzione di un incubo fatto di flebo, farmaci e quotidiana lotta per la sopravvivenza separate solo da una lingua di terra di due mesi appena, gli unici in cui sono stata una madre qualunque, con accanto un padre qualunque e in braccio un bambino unico eppure come tutti gli altri, da allattare e accompagnare al consultorio, da addormentare e portare alla Asl a fare i vaccini, a casa dei nonni, dai cuginetti la domenica, al mare, al lago, al parco o in uno di quei centri commerciali pieni di negozi per bambini, sconti dappertutto per le famiglie con bambini e bagni attrezzati con fasciatoio nell'angolo.

Ogni tanto vado su Internet e cerco statistiche sul tumore di mio figlio. Apro la pagina di google, digito "fibrosarcoma infantile", aspetto che mi compaiano davanti le stesse quattro pagine in croce che ho gia' letto decine di volte. Più' che dati e numeri cerco risposte, le stesse che mancano alle 1400 famiglie i cui bambini, ogni anno, in Italia, scivolano senza un perche' nel regno di Op.

Poi spengo il computer e mi affaccio alla finestra, a sbirciare la vita quotidiana altrui, mentre qualche giocattolo cade dal seggiolone e il latte nel biberon raggiunge la giusta temperatura.

Penso che torneremo anche noi a guardare le vetrine, a caricare valigie nel portabagagli per un week end al mare, a vestirci con la cravatta e il tailler per raggiungere un qualche ufficio e riprendere a lavorare, a montare sellini sulle biciclette e indossare tute da jogging e cuffie all'orecchio, a perdere tempo al telefono in conversazioni sulle partite di calcio e sul meteo, a mangiare al ristorante, andare al cinema, bere birra con gli amici nei pub.

Il percorso di guerra che non ammette distrazioni, ne' allontanamenti temporanei dalla nostra claustrofobica trincea, finira', prima o dopo. E noi forse non saremo mai più' spensierati e leggeri come prima. Ma torneremo felici. E meravigliosamente normali. Reduci dalla nostra infame trasferta all'inferno, certo. Pieni di lividi e bruciature.  Ma liberi dalle flebo, dall'isolamento, dalle analisi del sangue, dalle mascherine antibatteriche e dalle medicine a tutte le ore. Come tutti. A mescolare il nostro passeggino con gli altri, in strada.