venerdì 28 giugno 2013

Ode alla prof

Ho un'amica. Anzi qualcosa di più di un'amica. Ho una maestra. Un incrocio tra una seconda sorella e una seconda mamma. Ha 48 anni. I capelli neri, gli occhi giganti. Ci unisce la passione per i libri, la scienza politica e il filosofo Norberto Bobbio. Ci dividono i gatti: lei li adora pazzamente, io stupidamente li temo senza un perché.

Quest'amica, sorella, mamma e maestra mi ha insegnato la gran parte delle cose che so. Mi ha raccolto a 19 anni, quando ero una ragazzina di provincia impastata di mare e sale, trapiantata sull'astronave di cemento e autobus della grande città. La chiamavo "prof", perché questo faceva e ha sempre fatto e sa fare come nessun altro. Insegna. Colpisce, stupisce, affonda, trasforma. Insegna, appunto. All'università. Nell'università mi ha tenuto dentro anche dopo la laurea, quando sognavo di fare la giornalista ma ancora non lo sapevo fare bene e però amavo anche studiare.

"Studia ancora, che non c'è fretta e se studi poi la differenza con i giornalisti che si sono messi a scrivere troppo presto si vede", mi ha ripetuto mentre salivo e scendevo da casa sua, nel quartiere Prenestino, con i capitoli della tesi sottobraccio. E così sono stata a sentirla, mi sono messa a fare un dottorato al suo fianco, per quattro lunghissimi anni, lenti e saporiti. Le mattine in biblioteca nazionale con i libri, le matite e la Moleskine dove prendere appunti e scarabocchiare schemi. Le sere a cena da lei, bellissima e sfrenata, senza figli e sempre con misteriosi uomini al suo fianco, a sfornare lasagne vegetariane, cous cous e libri introvabili di storia del pensiero politico su cui fare le due di notte.

Quest'amica, sorella, mamma e maestra un giorno di qualche anno fa ha avuto una fitta alla pancia, si è come spezzata in due, per terra, ed è finita in un pronto soccorso senza nemmeno sparecchiare la tavola di casa, senza nemmeno mettere su la moka con il caffè. Dal pronto soccorso è finita in sala ecografie, dalla sala ecografie in un reparto di oncologia ginecologica, dal reparto in un treno verso Milano in cui le stavo accanto come una sorella o una figlia o una discepola o tutte e tre le cose insieme e da Milano di nuovo in treno verso Roma con una diagnosi da togliere il fiato (anche lei un tumore silenzioso, al centro della pancia)  in una cartellina bianca e blu. E poi nelle sale chemio del Grande Ospedale, quando ancora io un figlio non ce l'avevo nè lo aspettavo nè lo pensavo. E però ci andavo sempre con la prof. E ci sono andata fino all'ingresso della sala operatoria in cui l'hanno operata la prima volta. Ho aspettato, l'ho vista uscire, ho aspettato ancora che si svegliasse, che non era proprio sicuro che si svegliasse dopo tutte quelle ore sotto i ferri, dopo tutti quei punti al centro della pancia e del petto.

L'hanno salvata, la prof, cinque anni fa, nel Grande Ospedale. E nessuno ci credeva, che l'avremmo rivista con i capelli corti e il computer sottobraccio, di nuovo tra i corridoi di Scienza Politica, solare come sempre, a portarsi da sola davanti tutto il Dipartimento, a fare esami nel caldo di luglio ai ragazzi spettinati dei centri sociali, tra una citazione di Pareto e una di Marx.

Spericolata più di prima. Si è messa a girare per il mondo come e più di prima. Se n'è andata in Cina con sua sorella, poi in Turchia con un nuovo fidanzato, poi in America dove aveva preso a insegnare ai ragazzi dei college di Pittsburgh, tornando a Roma solo per gli appelli degli esami.

E lì a mandarci mail, fotografie dei grattacieli e dei laghi giganti da telefilm.

Quando è nato Angelo era in Italia. Era in stanza con mille regali dopo poche ore dal parto, sempre li madre sorella maestra e molto altro ancora. Quando si è ammalato del suo stesso male addormentato, nel suo stesso Ospedale predestinato a essere lo strano set dei nostri destini intrecciati si è affacciata a Op schivando flebo e giri di parole, aspettando la fine delle chemio sugli stessi gradini in cui io aspettavo la fine delle sue quando c'era stato da aspettare. Poi ci siamo perse di vista una manciata di giorni. E poi una mattina, poi, mi ha chiamato dal quinto piano e mi ha detto solo "Scendi con l'ascensore del percorso blu, stanza sei". Era di nuovo in un letto, con in mano il computer e attorno i suoi libri, la sorella inseparabile in un angolo a mordersi le unghie e a controllare la flebo. "Mi operano di nuovo, è tornato da un'altra parte". Io lo ricordo ancora il dolore sordo, al centro del petto, le nostre mani intrecciate, il senso profondo di rabbia e sconfitta.

Sono passati per entrambe mesi di curve, discese e risalite. La prof di nuovo sotto i ferri, la prof in Austria dalla sorella a curarsi lontano da ogni rumore, la prof che si vende casa perché le cure costano; la casa delle nostre cene di studenti scapestrati, di cui ha pettinato i sogni e i progetti. La prof ad Assisi che si arrampica piano nella basilica per il battesimo di Angelo, che lo sapevo che non poteva mancare.

Combatte ancora, la prof. Ma è un po' dura e sono giorni a denti stretti, di poche parole, nè cose da dire. Siamo lontane 500 chilometri. Vorrei guarirla. Davvero vorrei. Sarebbe giusto, ecco. Che senza la prof io proprio al mondo non ci saprei restare.